Cieli Tamarri. La Comunione dei numeri ultimi.

La Comunione dei numeri ultimi

Alla fine di aprile è uscito di stampa per le edizioni Periferia di Cosenza CIELI TAMARRI. LA COMUNIONE DEI NUMERI ULTIMI. Un mio volume di racconti. Lo introduco con la prefazione del prof. Pierantonio Zavatti che ringrazio di vero cuore: uno tra gli operatori culturali più noti a Forlì. Presidente del Circolo Acli “Oscar Romero”, già Assessore alla Cultura e all’Istruzione della provincia di Forlì-Cesena.

Prefazione

di Pierantonio Zavatti

 

Rolando Rizzo non è solo un romanziere di grande talento. I quin- dici racconti di CIELI TAMARRI (La comunione dei numeri ultimi) confermano la sua vocazione di scrittore dotato di un’ originale vena creativa, e propongono al lettore qualcosa di nuovo nello stile e nei contenuti della narrazione. Senza voler enfatizzare l’ammirazione per Rolando Rizzo, mi vien naturale un raffronto con Giovanni Ver- ga, i cui personaggi principali, pur in un ambiente geograficamente diverso, sono umili, persone del popolo minuto in cui prevalgono le ragioni dell’istinto e della dura necessità della sopravvivenza, “nu- meri ultimi”come quelli di Rizzo, per il quale hanno tuttavia un parti- colare rilievo anche le ragioni del cuore, l’anelito di vari personaggi a una vita più dignitosa, una speranza che spesso non vien meno neanche dopo le prove più difficili e tormentate. La dignità violata e calpestata produce nel mondo poetico di Rizzo non solo rassegnazio- ne, ma anche rabbia, indignazione che si esprime talora in reazioni violente. La persona non vuole soccombere perché la sua interiorità si ribella, resiste al sopruso e all’inganno, non si barrica nell’angu- sto orizzonte di un calcolo cinico e meramente opportunistico.

Anche la relazione fra romanzi e racconti vive in Rolando Rizzo in maniera difforme da quella del Verga. Il grande scrittore sicilia- no scrive “I Malavoglia” e “Mastro – don Gesualdo”, i due romanzi principali, negli ultimi decenni dell’Ottocento, dopo la maggior parte delle sue migliori novelle, che in qualche modo ne sono il terreno di coltura, mentre Rolando Rizzo, calabrese dello Ionio cosentino, sce- glie la dimensione del racconto dopo aver conquistato un pubblico significativo di lettori e la critica più attenta alle vere novità letterarie con una trilogia di romanzi iniziata con un autentico capolavoro come “Il mulino sul Colognati” (2008). Protagonista di questo bellissimo romanzo era stato “il tempo magico dell’esistenza” dello scrittore, l’infanzia e la preadolescenza vissuta a Rossano calabro, in un’età della vita che egli stesso definisce “povera, durissima e meraviglio- sa”: tre aggettivi non facilmente integrabili fra loro. Ma quel tempo della vita, pur rappresentato con ampiezza e potenza narrativa, conte- neva situazioni inedite, personaggi appena abbozzati o anche rimasti

 

Nella penna dell’autore, proiezioni della fantasia che partendo da vite vissute gridavano il loro bisogno di venire alla luce o di essere meglio messe a fuoco per dare più verità e coralità al mondo esplorato dal bambino e dal ragazzo nell’acrocoro (insieme “ignobile e sublime”), in cui l’autore ha assaporato “il miele e il fiele” dell’esistenza. In questo mondo prendono vita anche i personaggi dei racconti, da quelli più lunghi (una quindicina di pagine) che hanno come protagonista un individuo drammatico come Daviru a quelli più brevi, di pochissime pagine ma di elevata poeticità come, usando titoli non dialettali, “Il maestro elementare”, “I bambini hanno freddo”, “Tubetti e fagioli”, “La piccola accetta”, “Mastro Ninnuzzu e il quartino”, per citarne alcuni. E come Rosso Malpelo e altre novelle verghiane della raccolta “Vita dei campi” non possono essere considerate opere marginali e puramente complementari, così i racconti di Rizzo ne arricchiscono l’ispirazione e la dimensione artistica. Chi ha letto i tre romanzi di Rizzo pubblicati fra il 2008 e il 2013 avrà comunque la gioia della sorpresa e della scoperta di ritratti, esperienze e angoli di vita ine- splorati o prima solo intravist; chi invece non ha letto i romanzi sarà stimolato a farlo per avere una percezione più completa di una realtà che, pur datata storicamente, trascende il tempo dell’immediato do- poguerra e degli anni Cinquanta, perché le povertà materiali, come quelle immateriali, affettive e morali, non hanno tempo, e spesso nella nostra epoca e nel nostro sempre più piccolo pianeta tendono a pre- sentarsi in maniera ancora più acuta e drammatica.

Ma sotto i “cieli tamarri” non ci sono soltanto squallore e roz- zezza di zoticoni blindati in una condizione disumana, e gli incipit dei racconti che propongono versetti biblici non sono soltanto sapienti citazioni, ma spiragli verso il cielo di un’umanità che, anche fra i tanti che non conoscono la Parola di Dio, ne sente non di rado un non esplicito ma misterioso richiamo. Delicatissimo il racconto “A ciota”, che narra il tenero amore di uno storpio e di una ritardata umanamente e spiritualmente emancipata da un Missionario Vange- lista (Avventista). Molto appropriato ed eloquente dello spirito più interiore del libro l’incipit di questo racconto “Io ti rendo lode, o Pa- dre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Perché così ti è piaciuto”. (Luca 10:21).

 

 

Intervento critico in occasione della presentazione di << Cieli tamarri>> la Comunione di numeri ultimi alla Biblioteca Comunale di Niscemi il 31 maggio 2014. da parte del prof. Rosario Antonio Rizzo 

 

Rolando Rizzo arriva a questi 15 racconti, “Cieli Tamarri”, La Comunione dei numeri ultimi” dopo aver dato alle stampe una trilogia, “Il Mulino di Colognati” (2007), “Il Viaggiatore”, (2009) e il “Terzo treno” (2011). Tre libri che raccontano la vita, le vicissitudini, l’atavica povertà, le sopraffazioni, le emozioni, le pulsioni, gli impulsi, i desideri, attraverso la memoria,

E Rolando Rizzo indaga con occhio commosso, umanissimo e spesse volte fraterno, la vita dei <<vinti>>.

E più di un critico, leggendo le opere di Rolando Rizzo, l’ha collocato, e a giusta ragione, ci vien voglia di dire, in quel vasto movimento del “verismo” che in Luigi Capuana e in Giovanni Verga ebbero i capostipiti  tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento. Autori che si sono soffermati , come ci ricorda Alberto Asor Rosa, nella descrizione<<… su ambienti agricoli e provinciali e sulle plebi contadine, che costituivano allora in Italia la grande massa della popolazione più abbruttita e miserabile>>.

Ma  il popolo descritto da Rizzo, nelle sue opere, non è il popolo fatalista, ripiegato su sé stesso, senza speranza e disamorato dalla sua vita passata, presente e futura. Personaggi che troviamo, di norma, nelle opere “veriste” italiane.

Ricorda per certi versi,“quel volgo disperso che nome non ha”,  come direbbe il Manzoni.

Ed è proprio questo verso finale dell’Atto Terzo dell’Adelchi, che mi porta a dire che i personaggi di Rizzo sono più simili ai quelli manzoniani. Non bisogna dimenticare che Renzo Tramaglino è un umile servitore figlio del popolo che, armato delle parole del Vangelo, anche contro i potenti, entra nella storia  perché crede nella speranza di un futuro e abbandona la millenaria rassegnazione.

Ciò ci porta meglio a comprendere il sottotitolo di “Cieli tamarri”: La comunione dei numeri ultimi come controcanto al libro “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano, vincitore nel 2008 del Premio Strega e del premio Campiello, opera prima. Un bel libro i cui personaggi, Mattia e Alice, purtroppo, non hanno futuro. Certo sono figli di epoche diverse, ma senza speranza.

 

Non ho letto la trilogia di Rolando Rizzo, questo interessante scrittore calabrese. Ma ho letto, e riletto, questi ultimi 15 racconti, scritti con tanta passione, con proprietà di linguaggio, con un uso sobrio di qualche espressione dialettale e ha voluto, ancora una volta, tener fede a quell’aureo precetto che tutto il nostro passato rimane giustamente muto a chi non lo investe di una partecipazione presente. Quel passato che non vuole passare, insomma.

Rolando Rizzo, abbandona Rossano Calabro all’età di 14 anni e dopo una vita travagliata, piena, ma il tempo passato ci induce quasi a dire, ricca di esperienze, ma di questo ne ha parlato il pastore Gioacchino Caruso, arriva alla “meritata quiescenza” e si mette a scrivere.

Ma non lo fa da osservatore estraneo e distaccato dei suoi personaggi. La povera gente che popola i suoi racconti è frutto delle sue stesse esperienze. L’animo, i sentimenti, le emozioni degli stessi protagonisti sono quelli dell’Autore. Un autobiografismo non di maniera. Piuttosto una testimonianza di un protagonista che affida i suoi ricordi ad una vena lirica e ad una partecipazione struggente.

Ogni racconto è preceduto da “versetti biblici” che hanno il sapore di un “fil rouge”, una chiave di lettura, un ammonimento, un invito ad avere speranza se vogliamo uscire da quei condizionamenti che hanno fatto scrivere la storia millenaria solo ed esclusivamente agli uomini del potere. Anche , forse è più indicato dire, soprattutto, gli umili sono gli autentici personaggi di questi racconti.

Ogni racconto è ricco si presterebbe, in altre epoche avremmo detto “ si presta”, ad un ascolto attento attorno al fuoco di un caldano ed in religioso silenzio. Ogni racconto è una miniera di buoni consigli, di attenzioni, e di rispetto,verso la natura, l’ambiente, le persone, gli animali, le cose…!

<<Quando, avrete bisogno di un riparo, se è sera e anche gli animali sono stanchi, legate la cavezza al basto del ciuccio come lasciandolo libero, vi porterà al riparo più vicino>>, dirà u “zu Carmelo” rivolto a Minicuzzu e Vavannu, due cuginetti e “fratelli di latte, nati lo stesso giorno, nutriti entrambi dalla mamma di Minicuzzu, i cui seni parevano essere stati benedetti dalla Madonna delle balie, al contrario della mamma di Vavannu che nemmeno pareva avesse partorito”. Raccomandazioni per due giovani che intraprendono un’avventura, finita male per la mancata realizzazione; ma benissimo perché hanno trovato la solidarietà di altre persone e, soprattutto delle proprie mogli.

 

Siroru e ru ciucciu (Isidoro e l’asino)” racconta di un giovane, Isidoro, il Renzo Tramaglino di manzoniana memoria, costretto a lasciare il suo paese perché chiamato dai doveri della patria. Parte per la Russia a seguito delle truppe nazifasciste. E la seconda guerra mondiale è presente in un altro struggente racconto, “Giuvà focu a ra cura (Giovanni fuoco alla coda)”.

Isidoro aveva dovuto lasciare una vita dignitosa conquistata contro tutto e contro tutti.

Siroru era il primo della famiglia che godeva pienamente i frutti della lotta di un secolo: <<… contro il fiume, che d’estate è sabbia secca e in certi inverni è un drago distruttore; contro i sassi, alcuni immensi da parere d’aver radici al centro della terra; contro il latifondista che, a cose fatte, pretendeva che quell’angolo fosse suo: contro il demanio che, anch’esso, sempre a cose fatte, reclamava la stessa cosa; contro l’avvocato che soltanto per essere riuscito a far applicare l’usucapione riteneva di dover essere pagato come un principe del foro. Ma, infine, tutte le battaglie erano state vinte. E Siroru ne era orgoglioso, anche perché il nonno prima e il papà poi, nelle lunghe serate invernali davanti ai ciocchi d’ulivo scoppiettanti, erano stati i suoi Omero e Virgilio, che avevano trasformato quella storia di sudore e lacrime in un appassionato infinto poema epico>>.

Siroru arriva in Russia, assiste alla carneficina di soldati italiani, tedeschi, russi e, grazie ad una matura donna russa, Irina, che aveva perso i suoi figli in guerra, si salva e trova rifugio per due anni nella sua casa.

Siroru chiedeva spesso a Irina:

Perché mi hai salvato? Ora sono come un figlio per te, ma prima ero un italiano invasore. Ho sparato contro il tuo popolo, forse contro i tuoi stessi figli!”. E Irina:

<<Italiani, russi, tedeschi… Siamo tutti contadini, il colore della divisa non muta il colore del sangue e del cuore, né l’anima. Tutti, italiani, russi, tedeschi, inglesi… siamo ignorati dai potenti sino a quando c’è una guerra. Poi diventiamo carne da cannone. E’ sempre stato così, sarà sempre così. Tu non hai invaso il mio popolo. Non saresti mai venuto qui di tua volontà. Tu sei stato sequestrato, come i miei figli e hai combattuto unicamente per la tua vita. Ti hanno costretto a uccidere o a morire, come hanno costretto i miei figli>>. E Siroro, quando rientrerà a Rossano, saprà fare valere nei confronti dei potenti i suoi diritti.

 

Prima di concludere desidero soffermarmi su un altro racconto che, sotto certi aspetti ci coinvolge, personalmente e come Comunità niscemese.

Il racconto è “A ciota” (La ritardata).

In un quartiere nascono due bambini,  Graziedda e Nunzio, lo stesso giorno mese ed anno.

Graziedda è ritardata e riesce male a scuola; mentre  Nunzio, che ha problemi fisici e un corpo per niente armonico, riesce bene a scuola. Siccome i famigliari dei due ragazzini godevano di buona salute, le comare del rione si sbizzarriscono sulle cause.

<<Per Ninuzza Mezzacapa, erano state concepite di venerdì o durante la domenica di Pasqua, nonostante il prete avesse raccomandato astinenza in quelle ricorrenze sacre. Per Risulia Malanima, invece, erano certamente vere le voci le quali volevano che entrambi i padri, che lavoravano in Francia, che tornavano solo nelle feste, esageravano peccando con le mogli in quella quindicina che passava troppo veloce. Addirittura, la mattina mandavano i figli a giocare fuori con l’obbligo tassativo di non ritornare prima di un paio d’ore, e pare che sfiancassero  le povere donne, tanto che alla fontana facevano fatica perfino a portare gli orci vuoti, Pasqualina Piscionta, invece, aveva l’assoluta certezza che i due mariti in Francia avevano imparato, e chiesto alle mogli, cose sconosciute, male sporchezze francesi>>.

Graziedda soffriva molto del suo stato perché, avanzando con gli anni, si accorgeva di non essere accettata nemmeno dalla sua famiglia.

All’età di 22 anni si trova in un gruppo di giovani che frequentano la Chiesa Avventista con un missionario, Vincenzo, che riesce a farle acquistare quella fiducia e quella dignità di cui aveva bisogno.

Quando Graziedda riferisce a Nunzio di aver incontrato il missionario, Nunzio racconta ciò che si dice del Pastore Avventista:

<<Il Missionario? E chi è questo Missionario? Forse quel buffo uomo magro vestito di nero con i baffetti alla Charlot che viene in casa vostra in giacca e cravatta? Sempre a braccetto di quella moglie bionda, spilungona, forestiera? Perché la moglie è forestiera, vero? La mamma mi ha detto che don Cucuzzedda, durante la messa, ne ha dette di tutti i colori. Che è comunista, che bestemmia la Madonna e i Santi, che è capace di passare davanti alla Madonna Achiropìta senza neppure togliersi il cappello! E’  un senza Dio. Com’è che lo fate entrare in casa vostra, visto che tua mamma va sempre a messa?”.

 

Ma solo in Calabria la Chiesa Cattolica accoglieva in questo modo gli eredi di Martin Lutero?

Solo a Rossano Calabro veniva riservata questo tipo di accoglienza?

E a Niscemi?

Sentite cosa pensa, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, un sacerdote niscemese sia dei comunisti che  degli evangelici:

<<E’ anche molto doloroso constatare il progressivo affievolimento del sentimento religioso in questo paese che sino a cinquant’anni addietro era così profondamente cristiano e cattolico. Quel sentimento, per ragioni facilmente comprensibili, è venuto meno.

Dacché cominciò il movimento socialista, poi durante il fascismo e, peggio, con la Camera del Lavoro comunista, si è tentato mettere in discredito i preti e la religione e ad inaridire la vita spirituale anche delle povere donne. Per conseguenza la vita morale declina; non c’è più nelle famiglie l’antica e severa disciplina; da per tutto è disagio, incertezza, invano s’invoca la pace e la serenità dello spirito.

Ma vi è di peggio. Nel 1950, per opera di un ignorante e incosciente calzolaio, venne in Niscemi un pastore protestante che tosto fece proseliti, qualificandoli evangelici: e poi tornando ogni sabato, intensificò una propaganda che preoccupò i veri cattolici. Alla periferia del paese e nel rione Vacirca, quel Pastore trovò una casa che convertì subito in nuda e squallida chiesa, ove ogni sabato convengono gli Evangelici (che oggi sono molto numerosi) specialmente donne che ascoltano gli insegnamenti del Pastore, pregano, cantano; e mostrano tale fervore e profonda convinzione che non hanno i cattolici. Ignoriamo cosa si è fatto per impedire l’opera e la propaganda di questi sedicenti Evangelici; ma la loro attività in Niscemi, ove il basso popolo ignorante è curioso e amante della novità, fa temere in molti la perdita della fede>>. Canonico Rosario Disca, Niscemi e il suo territorio, di prossima pubblicazione.

E non è tutto.

Nel giugno del 1961, frequentavo la terza classe magistrale a Vittoria e preparavo una vacanza lavoro estiva in quel di Uster, in Svizzera. Saputa la notizia il nostro insegnante di religione, don Mario Ciancio, mi prese da parte, alquanto preoccupato, ed ebbe a dirmi: “E’ vero che vai in Svizzera? Figlio mio, stai attento. In Svizzera ci sono i protestanti!”. Arrivato ad Uster presi contatto con il missionario della Chiesa cattolica, don Filippo Menghini, con il quale instaurai un bellissimo rapporto durato fino alla sua scomparsa. E fu proprio lui che mi ha regalato una bellissima serata, ricca di emozioni e di discussione,  invitandomi una sera ad una cena proprio in casa del pastore protestante, suo grande amico e sodale nella condivisione della solidarietà nei confronti dei sofferenti di qualsiasi nazionalità.

Io, sopravvissi , e sopravvivo, ai protestanti e ritornai in Svizzera definitivamente, l’anno successivo.

Ironia del destino. Dopo qualche tempo gli amici di Vittoria mi hanno informato che don Mario Ciancio ha lasciato gli abiti talari è convolato a nozze ed ha messo su una bellissima famiglia.

Così come è capitato a Graziedda e  Nunzio che, unendo ognuno le proprie caratteristiche, hanno convolato a nozze e dato alla luce dei bellissimi bambini.

La situazione a Niscemi è cambiata e di molto. Ricordo, qualche anno fa, le manifestazioni in comune tra la parrocchia delle Anime Sante del Purgatorio di don Lillo Buscemi e gli Evangelici della Chiesa Avventista del 7° Giorno in occasione dell’uscita del libro di Dam Brown “Il Codice da Vinci”.

Buona lettura di questo interessantissimo libro di Rolando Rizzo e grazie per l’attenzione prestatami.

 

Rosario Antonio Rizzo

 

Niscemi, 31 maggio 201

 

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